Sono nato a Tropea e non sono ricco. Ecco perché…

Pubblicato da Diego Antonio Nesci il

Sovente, a Sud – forse per non farsi prendere da paranoie e depressioni derivanti dalla consapevolezza di avere ottenuto tutti gli svantaggi della modernità: inquinamento, stress e anomia; senza i vantaggi: infrastrutture, servizi efficienti e possibilità di accesso alla cultura – ci si illude di essere i detentori ed i conservatori di un tipo di società rurale, genuina, integrata e ben funzionante, fatta di persone felici in armonia con l’ambiente circostante. La realtà della vita quotidiana vissuta a Sud ci riporta subito con i piedi per terra e sappiamo benissimo che così non è. La vita rurale costruita dai miti dell’ideale bucolico, è stata, per così dire, dissacrata da alcuni lavori di antropologi e scienziati delle teorie dello sviluppo, di cui riporterò le considerazioni, che spiegano come le società rurali e contadine siano portatrici di modelli mentali che inibiscono lo sviluppo. Questi modelli mentali, a mio umile avviso, sono ancora innestati nelle nostre menti e faremmo bene a riconoscerli, per poterli successivamente abbandonare. In generale, noi occidentali, abbiamo ereditato un pregiudizio positivo sulla natura e sulla qualità della vita rurale che ostinatamente rifiutiamo di abbandonare nonostante la crescente evidenza contraria. Mi riferisco allo stereotipo della vita rurale ideale che, sotto le varie etichette di: ideale bucolico, mito del buon selvaggio, si ritrova indietro nel tempo fino all’antichità classica. “Sin dall’epoca delle prime scritture, l’uomo occidentale ha creduto o voluto credere che vita rurale è marcata da una qualità morale speciale e che essa contiene al suo interno certe virtù fondamentali contrapposte alla vita urbana, alla sua impersonalità e anomia, ai suoi vizi e ai suoi stress da competizione. Questa è una delle nostre più vecchie affezionate credenze, e avanzare il dubbio che possa essere falsa è considerato da alcuni come uno dei più grossi attacchi che si possa portare alle fondamenta stesse della società in cui viviamo” (Foster 1973). Ma la scienza antropologica, ha gettato non pochi dubbi su questa fantomatica superiorità morale della vita rurale. Il che non significa che la vita urbana non sia altrettanto folle. Bisognerà cominciare, prima o poi, ad inventarsi qualcosa di nuovo ed integrato. Oscar Lewis (1951), dopo un certo periodo di tempo passato ad osservare e studiare i comportamenti di una comunità contadina in Messico, era rimasto colpito dalla “mancanza di cooperazione, dalla tensione tra le diverse frazioni appartenenti a uno stesso territorio comunale, dalla divisione all’interno di ogni frazione e dalla paura pervasiva, dall’invidia e dalla sfiducia riscontrabili nelle relazioni interpersonali. Il pettegolezzo è continuo e pesante […]. I fatti capitati alle persone vengono distorti inconsciamente o a bella posta […] i parenti e vicini fanno presto a dar credito alle cose peggiori e le intenzioni degli altri sono sempre messe in dubbio […]. Le persone di successo, sono bersagli popolari delle critiche, dell’invidia e dei pettegolezzi maliziosi”. Ledere un mito è la minaccia più grave che si possa portare a una società; ma è inutile negare l’evidenza. Questi atteggiamenti, tipici delle realtà contadine e rurali, sono facilmente riscontrabili ancora oggi, nei nostri territori. Leggendo gli scritti menzionati, si fa riferimento spesso alla questione della mancata indipendenza delle società contadine rurali. Per esempio, molti dei valori dei contadini rappresentano la semplice imitazione dei valori presenti nei centri urbani. Anche politicamente questo tipo di società ha ben poca indipendenza, infatti, come scrive Foster: “per quanto ricordino, sono sempre stati governati dallo Stato e, come conseguenza, le loro comunità hanno scarsamente sviluppato modelli efficaci di leadership locale”. Fellers (1961) scrive che “le popolazioni rurali, che corrispondono completamente o in parte questi criteri comprendono: i meticci e gli indios nel sud- America; le popolazioni che abitano le coste del Mediterraneo, siano esse europee, africane o asiatiche; e alcuni popoli del medio oriente e del sud est asiatico”. Anche se le dinamiche della vita nel meridione non sono oggi del tutto ascrivibili nella definizione esatta di società contadine, sicuramente i retaggi di questo tipo di mentalità ostile al cambiamento, più propensa verso il mantenimento dello status quo e quindi nella reiterazione della tradizione – quando risulta essere assolutamente anacronistica – li ritroviamo nelle nostre comunità. Scrive Foster: “in parole povere il contadino si aspetta di obbedire, non di comandare. Per generazioni ha potuto prendere l’iniziativa solo in domini molto limitati della propria vita quotidiana. Poca meraviglia dunque se spesso ha problemi a decidere sull’adozione o meno di un’innovazione tecnica. Inoltre, non solo il contadino non ha alcun controllo sulle decisioni fondamentali, ma di solito non sa nemmeno come e perché vengano prese. Gli ordini, i tributi, le restrizioni e le tasse che gli sono imposte hanno per lui la stessa qualità fortuita e capricciosa degli eventi atmosferici. Per questo, il contadino ha verso l’autorità, lo stesso tipo di atteggiamento che nutre verso ciò che è soprannaturale: può supplicare, implorare, propiziare e sperare in un miracolo, ma in nessun caso può aspettarsi che siano le sue azioni ad avere il controllo delle cose circostanti”. La mentalità contadina quindi è caratterizzata da un atteggiamento fatalistico verso la vita. Siamo o no, ancora, attaccati a questi modelli mentali ? Mille volte, confrontandomi anche con persone colte e giovani, mi sono sentito dire: “ma chi ce la fa fare, tanto non cambia niente”. Io direi proprio che lo siamo.

Friedman, nella sua superba analisi sulla miseria in Calabria e Lucania, si sofferma sulla mentalità di mutua sfiducia. Essa consisterebbe nell’incapacità di lavorare insieme e di collaborare per il bene comune. La miseria è “un modo in cui voler bene ai propri vicini, abbassare la guardia nella lotta senza fine per l’esistenza, significherebbe semplicemente commettere suicidio” (Friedman 1958).

Banfield (1958), studiando il Mezzogiorno d’Italia osservò, nel villaggio di Montenegro (questo era il nome dietro cui si celava il paesino della Lucania, in provincia di Potenza, dove portò avanti le sue indagini) che “amici e vicini erano ritenuti potenzialmente pericolosi”. Nessuna famiglia sopportava di vedere un’altra prosperare, oltre la  propria, senza provare invidia e augurarsi la loro disgrazia. La conclusione a cui approda l’autore, è che la mentalità contadina é caratterizzata da un amaro senso di sospetto reciproco e di sfiducia che rende estremamente difficile cooperare per il bene comune. Banfield per identificare queste sindromi riscontrate durante le sue ricerche, coniò il temine familismo amorale per rappresentare questo tipo di cultura carente di valori comunitari ma carica di valori familiari. Nel suo libro, divenuto un classico che non smette di destare interesse, ad un certo punto stila un vero e proprio elenco dei comportamenti collettivi ed individuali, tipici di una società di familisti amorali che è utile riportare per due ordini motivi: prima di tutto, per vedere se qualcuno dei lettori si riconosce in qualcuno di essi e poi, per avere un elenco di atteggiamenti da evitare di mettere in pratica, se si vuole smettere di alimentare questo tipo di atteggiamenti che, in tutti i casi, sono disfunzionali allo sviluppo della comunità in cui viviamo.

«In una società di familisti amorali:

– Nessuno perseguirà l’interesse del gruppo o della comunità, a meno che ciò non torni a suo vantaggio personale. In altre parole la speranza di vantaggi materiali a breve scadenza è il solo motivo d’interesse per le cose pubbliche.

– Soltanto i funzionari si occupano della cosa pubblica, perché essi soltanto vengono pagati per questo. Che un privato cittadino si interessi seriamente a un problema pubblico, è considerato amorale e perfino sconveniente.

– Mancherà qualsiasi forma di controllo sull’attività dei pubblici ufficiali, poiché questo compito spetta ai superiori gerarchici dei funzionari in questione.

– Sarà molto difficile dare vita e mantenere in vita, forme di organizzazione (cioè, attività organizzate in base a esplicito accordo). I fattori che inducono la gente a prestare le loro energie in organizzazioni sono in larga misura atteggiamenti di altruismo e spesso non di ordine materiale. È essenziale per la riuscita di una organizzazione che i membri abbiano fiducia reciproca e spirito di lealtà verso l’organizzazione stessa e che vengano fatti piccoli e grandi sacrifici per il bene dell’organizzazione.

– Coloro che ricoprono cariche pubbliche, non identificandosi in alcun modo con gli scopi dell’organizzazione a cui appartengono, si daranno da fare quel tanto che basti per conservare il posto che occupano o per ottenere promozioni. E d’altra parte, le persone istruite e i professionisti, di solito non saranno mossi da uno spirito di vocazione o di missione. In realtà le cariche pubbliche, o le conoscenze specializzate, saranno considerate da coloro che ne dispongono come armi da usare a proprio vantaggio contro gli altri. Come spiegava un giovane maestro, figlio di artigiani: “lo studio e l’istruzione hanno aiutato alcuni a migliorare la loro posizione, perché costituiscono un vantaggio nei confronti dei più ignoranti. L’istruzione serve loro per sfruttare meglio l’ignoranza degli altri, per ingannarli con maggiore abilità”.

– Si agirà in violazione della legge ogni qual volta che non vi sia ragione di temere una punizione.

– I deboli sono favorevoli a un sistema in cui l’ordine sia mantenuto con la maniera forte.

– Non ci sono leader. Nessuno prende l’iniziativa di proporre una linea di azione e persuadere gli altri a seguirla, e d’altronde se qualcuno assumesse una posizione di leader, il gruppo non lo accetterebbe come tale, per mancanza di fiducia.

– Esiste la diffusa convinzione che qualunque sia il gruppo al potere, esso è corrotto e agisce nel proprio interesse già subito dopo le elezioni. La gente è certa che i neoeletti sono occupati ad arricchirsi a loro spese, e non hanno alcuna intenzione di mantenere le promesse che hanno fatto. Di conseguenza, l’atteggiamento dell’elettorato è quello di chi ripaga, per mezzo del voto, non favori ma ingiustizie ricevute, e si serve del voto come strumento di punizione.

Il familista amorale:

– Apprezza i vantaggi che possono derivare alla comunità, solo se egli stesso e i suoi ne abbiano parte diretta. Anzi egli si opporrà a misure che possono aiutare la comunità ma non lui, perché, anche se la sua posizione, in senso assoluto, resta immutata, egli ritiene di venirsi a trovare in una situazione peggiore se i suoi vicini migliorano la propria posizione. Così può accadere che misure di riconosciuto vantaggio generale suscitino le proteste di coloro che ritengono di non riceverne alcun beneficio, o perlomeno di non riceverne in quantità sufficiente.

– Quando riveste una carica pubblica, accetterà buste e favori, se riesce a farlo senza avere noie, ma in ogni caso, che egli lo faccia o no, la società di familisti amorali non ha dubbi sulla sua disonestà» (Banfield 1958).

Come si evince, c’è scarsa lealtà verso la comunità più vasta o verso l’accettazione di norme comportamentali che richiedono il sostegno di altri. Quindi il familismo è amorale, dà adito a corruzione e distoglie dalle regole universalistiche e dalla premiazione del merito. In quel tipo di società è buono solo ciò che fa gli interessi di se stesso e della propria famiglia. 

La stessa mafia può essere considerata un esempio estremo di familismo amorale.

Sono superate queste problematiche nel Mezzogiorno?

Credo proprio di no.

Altra caratteristica fondamentale di questo tipo di mentalità arretrata è l’immagine del bene limitato, cioè, si ha la convinzione inconscia che la ricchezza non sia espansibile e che, al contrario, sia statica. Non vi è modo di aumentarla, per quanti sforzi individuali si facciano. La conseguenza di questo tipo di mentalità è, naturalmente, che quando si vede qualcuno fare fortuna, ciò è potuto avvenire solo a spese di qualcun altro. Questa immagine del bene limitato, ha indotto Foster alla formulazione di un modello più generale in cui non solo i beni economici ma quasi tutti i tipi di bene – l’amicizia, l’amore, l’umanità, l’onore, il rispetto, la salute, il potere e la sicurezza – sono considerati beni disponibili in quantità limitata. Il modello del bene limitato, naturalmente un idealtipo (richiamando lo schema di Foster 1962), comprende cinque punti:

1. I contadini condividono tacitamente una premessa assiomatica, un orientamento cognitivo che considera gli ambienti naturali e socio- economici in cui essi vivono come sistemi chiusi.

2. Le risorse del sistema – naturali, economiche e umane – sono insufficienti a soddisfare bisogni di ciascun componente del sistema stesso, a fornirgli cioè la ricchezza che egli desidera. La ricchezza non soltanto è limitata, ma è anche stazionaria e inespansibile all’interno del sistema.

3. Sebbene i contadini credano che la ricchezza interna al sistema sia inespansibile, sanno che ce n’è altra al di fuori del loro mondo ma che è normalmente irraggiungibile.

4. In un sistema chiuso e stazionario, che non si espande e non può espandersi, i guadagni di una persona, in riferimento a qualunque bene, debbono costituire una perdita per qualcun altro, come affermano le teorie dei giochi a somma zero.

5. Per cautelarsi dall’essere un perdente, il contadino ha sviluppato uno stile di vita egualitario, di povertà condivisa, stazionario e in equilibrio, in cui attraverso comportamenti espliciti o simbolici, le persone sono scoraggiate dal tentare di cambiare le cose, non solo dal punto di vista economico ma anche in altri ambiti della vita quotidiana.

Con una tale mentalità, qualsiasi aiuto tecnico che presuppone un alto grado di cooperazione è ovviamente destinato al disastro. In questo tipo di mondo ogni manifestazione di un cambiamento che mostra il miglioramento della propria situazione materiale è prova di colpevolezza. Infatti, le famiglie contadine di solito cercano di nascondere i propri miglioramenti materiali. A questo proposito, per esempio, molte volte mi è capitato, in Calabria, di entrare in delle case – naturalmente non ancora terminate, perché c’è sempre la speranza di costruire un piano superiore – apparentemente modeste ma che celavano tutti i tesori all’interno delle mura. In questo tipo di società, intrinsecamente povere di fiducia, la cooperazione è spesso difficile da realizzarsi. Il singolo individuo, infatti, si trova di fronte al cosiddetto dilemma del prigioniero, in cui le spinte alla cooperazione sono scoraggiate dalla previsione di un comportamento cooperativo che finirà con l’essere sfruttato da qualcun altro a danno dei propri interessi. In dialetto calabrese si chiama: futti cumpagnu. Questo tipo di mentalità si rispecchia nei comportamenti quotidiani, dove si preferisce non rischiare di essere risucchiato ingenuamente in un’avventura cooperativa di cui non si può controllare la riuscita. L’unico arricchimento accettato è quello che deriva da attività consistenti nel drenare risorse localizzate al di fuori del sistema. Ne costituisce un perfetto esempio la figura,  fino a poco tempo fa venerata nel meridione, dei politici che agiscono ad alti livelli istituzionali. Essi riuscendo a veicolare investimenti e fondi (leggi: drenare ricchezza dall’esterno verso la propria comunità di provenienza) sono accettati degni di rispetto. Oppure la figura di un appartenente alla comunità che ritorna dopo aver fatto fortuna in altre città o in paesi stranieri. Questi tipi di ostentazione della ricchezza sono accettati poiché si sa che tutti questi beni vengono dal di fuori, e dunque non possono essere stati acquisiti a spese di altri compaesani. Tutti questi tipi di atteggiamento che compongono la sindrome culturale del bene limitato sono essenzialmente disfunzionali alla crescita economica ed allo sviluppo. Per esempio la predazione o la caccia alla rendita sono atteggiamenti che si basano sull’esclusione dei potenziali concorrenti all’accesso alle risorse limitate. Nella storia esempi concreti di questo atteggiamento mentale sono stati il latifondo e il monopolio: tutte forme di protezionismo che polarizzano la ricchezza. Queste strategie, inibiscono la crescita economica, perché il surplus ottenuto non deriva dal potenziamento delle capacità produttive – ottenuto con lo sviluppo della tecnologia – ma dallo sfruttamento della mano d’opera esclusa dall’accesso alle risorse e resa in qualche modo ricattabile. Questa visione del mondo è intrinsecamente limitante lo sviluppo perché essa, anziché concentrarsi sui metodi di accrescimento della ricchezza, è affaccendata sulla sua distribuzione, delineando così una società basata sulla condivisione della povertà.

Con siffatte convinzioni mentali, il fatalismo non può che farla da padrone inibendo così le capacità imprenditoriali che vedono nell’investimento la principale fonte di accrescimento della produttività. In soldoni, c’è uno scoraggiamento di base che inibisce le propensioni verso un miglioramento della propria condizione personale. Questi comportamenti da bene limitato, non sono affatto esclusive delle società contadine. Sono, probabilmente, riscontrabili in tutte le società. Mi sento di poter affermare, però, che esse siano, per lo meno caratterizzanti le mentalità della maggior parte degli abitanti del mezzogiorno. Anche se così non fosse, è importante mettersi in guardia da questo tipo di convinzioni che, una volta conosciute possono essere disinnescate. Una percezione del mondo circostante completamente assorbita all’immagine del bene limitato è certamente scoraggiante verso il progresso e inibisce gli sforzi interessati a promuovere il cambiamento. Certamente il cambiamento è sempre destabilizzante mentre l’uomo predilige la sicurezza e la prevedibilità. La resistenza al cambiamento è qualcosa di umano. Tutto dipende dal fatto che c’è bisogno di una quantità extra di energia quando si realizzano attività nuove, in confronto a quando  -invece- si ripetono attività che già si conoscono, che si controllano, a cui si è già abituati e quindi allenati. Per questo resistiamo al cambiamento: perché non vogliamo utilizzare più energia di quanto non siamo abituati a fare, per una sorta di indole naturale ad economizzare gli sforzi (leggi istinto di sopravvivenza). Ma oggi non possiamo permetterci di restare impantanati in questi gineprai mentali. Le mentalità cambiano, e possono cambiare, anche in maniera relativamente veloce agendo sulla rimodellamento della scala dei valori personali e quindi collettivi. La formula? Educazione, educazione, educazione!

Estratto dalla Tesi Magistrale 2014 Diego Antonio Nesci (1)


Diego Antonio Nesci

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