Genova e l’insostenibile costo sociale del profitto privato

Pubblicato da Salvatore Remorgida il

È doveroso che, in premessa di questo post, un messaggio di cordoglio voli dritto verso Genova, verso le famiglie di chi sotto le macerie del Morandi ha perso un caro. Dalla speculazione esasperata di questi giorni si vuole star fuori, lontani dalla polemica che mostra, in maniera dolorosamente eclatante, il brutto della politica. La terra vi sia lieve.

Detto ciò, se la democrazia, nella Repubblica di Platone, è vista con tale meraviglia da attribuirne l’uso solo agli dei infallibili, appare evidente che, ancor meno della democrazia, il disimpegno dello Stato è lusso che non appare possibile possa appartenere alla società del fallibilissimo uomo dei giorni nostri.

Genova è solo l’ultimo tassello, il più drammatico, di una palese contraddizione che questo Paese mostra ogni qualvolta affronta i temi del libero mercato e delle privatizzazioni: ai proclami non precede e non fa nemmeno seguito, alcuna capacità di individuare, da parte degli organi preposti, partner capaci ed, ancora più grave, è evidente l’incapacità degli stessi organi di operare la golden power (o il doveroso controllo) su chi si è assunto oneri, ancor prima che onori. Alimentando le maligne voci che, anziché d’incapacità, si tratti addirittura di impotenza dello Stato di fronte agli attori economici e alle loro pressioni, nascenti da una forza finanziaria vitale-virale per un modello economico liberale-liberista come il nostro.

Quanto crediamo possano investire le protagoniste private in crescita, sviluppo, sostenibilità ambientale, se esse sono, e ci mancherebbe altro, strutture incrementa-guadagni e non, come si potrebbe dire invece per lo Stato, società a scopo di pubblica tutela degli interessi d’una comunità intera? Crediamo davvero che Arcelor-Mittal, sull’Ilva perda troppo tempo (e denaro) su piani che antepongano la salute dei tarantini rispetto alla massimizzazione dei guadagni? Creduloni.

E dov’era lo Stato, la Direzione Generale del Ministero delle Infrastrutture, quando avrebbe dovuto adoperarsi, con sguardo vigile, intransigente, per le verifiche su un produttivo svolgersi della concessione. Fruttuosa sarebbe dovuta essere non solo per Benetton, ma per l’intera rete autostradale. Non lo è stata evidentemente abbastanza.

La risultante delle due considerazioni sta nel peso di morte e distruzione che ha colpito oggi Genova, ma non solo. Già troppe volte si son piante vittime dell’incuria, difetto del privato e non solo del pubblico. Disastri annunciati come effetto dell’efficientamento dei carrozzoni prima pubblici, posti ad estrema cura dimagrante dai privati, pur di spremere al meglio l’infrastruttura.

Il Ponte Morandi si porta giù, un intero sistema che ha subito spinte, da destra quanto da sinistra (“cos’è la destra, cos’è la sinistra”), verso liberalizzazioni e privatizzazioni che, smantellando i monopoli centrali dei servizi pubblici e collettivi, li ha condotti nelle braccia degli oligopoli privati.

Un effetto a medio termine delle liberalizzazioni, che sul lungo trasformano il mercato libero in mercato privato dei pochi ricchi che monopolizzano, con cartelli, i servizi. Effetto a medio termine di privatizzazioni benefiche per le casse dello Stato, ma solo teoricamente migliorative delle qualità dei servizi, se lo Stato si disimpegna anche del ruolo di vigiliante custode dell’essenzialità di taluni di essi.

Uno Stato debole ha come effetto le deboli tutele dei giorni nostri. Tutele ancor più difficili da assicurare, se non impossibili da gestire, in un contesto liberista che riterrebbe, forse, esagerato anche Adam Smith.

Oggi mostra crepe il moribondo sistema neocapitalistico, non più sistema dell’egemonia schiavistica di classi sociali su altre, quanto della coercizione. Leggi di governi neoliberisti che permettono “l’accumulazione per spoliazione”, citando David Harvey nelle “Diciassette contraddizioni e la fine del Capitalismo”: un sistema che supera le classiche relazioni capitaliste per sfociare in  “un’economia della rapina”, dove si accumula ricchezza non con lo schiavismo quanto con l’appropriazione privata di ciò che viene prodotto dal pubblico, la richiesta di servizi e beni comuni (energia, acqua, infrastrutture) e la loro erogazione. Una nuova forma, ancor più cinica e spietata perché nata e cresciuta nella culla della legalità, che massimizza i profitti dai servizi pubblici fin dal risparmio sulla qualità della loro erogazione. Necessita, oggi, una presa di coscienza sui nuovi mostri da sconfiggere dalla società civile, come nella vittoria che avrebbe dovuto impedire la privatizzazione dell’acqua, prima che il costo sociale del profitto privato divenga ancor più alto: divenga, di nuovo dopo Genova, morte.

 

Opera ispiratrice: David Harvey, Diciassette contraddizioni e la fine del Capitalismo

Categorie: Politica

Salvatore Remorgida

Meridionale, osservatore critico per passione, studente in Giurisprudenza. Curriculum Vitae et Studiorum

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